Le luci dello stadio si erano appena abbassate quando Thiago Motta uscì per l’ultima volta dalla sede del club. La notizia era stata diffusa solo poche ore prima: non era più l’allenatore. Il licenziamento non era inaspettato, ma il peso lo schiacciava ancora. Aveva riversato tutto in questa squadra, in questa stagione. Eppure, eccolo lì, solo, scartato e di fronte a un futuro incerto.
Mentre entrava nell’aria fredda della notte, la consapevolezza lo colpì più duramente di qualsiasi sconfitta: il calcio, lo sport che era stata la sua vita, gli aveva appena voltato le spalle.
La pressione che non svanisce mai
Allenare non era mai stato facile per Motta. La pressione, l’implacabile controllo dei media, le aspettative dei tifosi, era totalizzante. Ogni partita sembrava una finale, ogni conferenza stampa una prova della sua compostezza. Aveva vissuto sotto questa pressione per anni, ma non si era mai lasciato abbattere. Fino a quel momento.
I mesi che avevano preceduto il suo licenziamento erano stati brutali. I risultati scadenti avevano alimentato le voci sulla sua partenza molto prima che diventasse ufficiale. Aveva lottato per tenere unita la squadra, per trovare soluzioni in campo, ma il calcio è spietato. Una serie di brutte prestazioni, un rapporto incrinato con il consiglio e, all’improvviso, il progetto un tempo promettente era finito.
La sua mente era annebbiata dallo stress da settimane: notti insonni, ansia costante e il senso di fallimento che lacerava. Il peso di tutto ciò stava iniziando a manifestarsi fisicamente. I mal di testa stavano diventando insopportabili, il suo petto si sentiva stretto e la sua energia stava svanendo. Ma lui l’aveva ignorato. Il calcio pretendeva tutto e lui aveva dato tutto.
Il crollo
La mattina dopo il suo licenziamento, Motta si svegliò nel suo appartamento di Milano, esausto. Cercò di alzarsi dal letto, ma il suo corpo si rifiutò di collaborare. Le sue mani tremavano mentre cercava il telefono, la sua vista si annebbiava. Poi, all’improvviso, il buio.
Quando si svegliò di nuovo, era in un letto d’ospedale, il suono dei bip delle macchine riempiva la stanza. Un medico era al suo fianco, con un’espressione seria.
“Sei stato fortunato”, disse il medico. “Il tuo corpo è sotto stress estremo. Se non rallenti, le cose potrebbero peggiorare”.
Motta espirò bruscamente. Aveva trascorso la sua carriera spingendo il suo corpo al limite come giocatore e ora come allenatore. Non aveva mai pensato alle conseguenze. Ma ora, il suo corpo lo stava costringendo a farlo.
Una seconda possibilità?
Passarono i giorni e Motta rimase sotto osservazione. La notizia del suo problema di salute si era già diffusa e messaggi di giocatori, colleghi e tifosi inondarono il suo telefono. Alcuni gli auguravano il meglio, altri ipotizzavano se sarebbe mai tornato ad allenare.
Per la prima volta da anni, si chiese: voglio davvero tornare?
Aveva trascorso decenni a inseguire la perfezione nel calcio. Ma cosa gli era costato? La sua salute, la sua felicità, la sua tranquillità. Forse questo era un segno. Forse era il momento di fare un passo indietro.
Ma poi, una sera, mentre scorreva i messaggi, uno catturò la sua attenzione. Era di un giovane centrocampista che aveva allenato, uno dei pochi che credeva davvero nella sua filosofia.
“Coach, ci hai sempre detto di non mollare mai. Non mollare neanche tu.”
Riagganciò il telefono e fissò il soffitto. Il fuoco dentro di lui non si era ancora spento del tutto. Forse non era la fine. Forse, solo forse, era un nuovo inizio.